Nullità della rinuncia a diritti futuri e contratto a tempo determinato

La Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 6664 del 1° marzo 2022 ha confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale le rinunzie del lavoratore aventi ad oggetto diritti non ancora entrati a far parte del patrimonio giuridico (c.d. diritti futuri) sono radicalmente nulle poiché contrarie alle norme imperative di legge di cui agli articoli 1418 secondo comma e 1325 c.c., anche nell’ipotesi in cui tali rinunzie siano state sottoscritte nelle sedi protette di cui all’articolo 2.113 c.c.
Ha altresì ribadito che gli accordi intercorsi tra il lavoratore ed il datore di lavoro in sede protetta ai sensi dell’articolo 2.113 c.c. non consentono mai di addivenire ad atti regolativi in contrasto con norme imperative.
In conclusione, dunque, in sede conciliativa, oltre a non poter rinunciare a diritti futuri, non è nemmeno mai possibile concordare regolazioni dei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore contrari a norme imperative.
Il lavoratore ed il datore di lavoro, nel corso di una causa di impugnazione del termine apposto a un contratto di lavoro della durata di 35 mesi e 18 giorni, sottoscrivevano innanzi al Giudice del Lavoro un verbale di conciliazione in forza del quale l’azienda si impegnava ad assumere nuovamente a termine per quattro mesi il lavoratore a fronte della rinunzia, da parte dello stesso, ad avanzare qualsiasi pretesa in relazione a tale secondo contratto.
Il lavoratore, alla scadenza di tale secondo contratto, promuoveva un nuovo giudizio, sia sostenendo la nullità della conciliazione sottoscritta nel corso della prima causa, sia chiedendo la conversione del rapporto a tempo indeterminato, per superamento del termine massimo di durata di trentasei mesi.
La Corte di Cassazione ha dato ragione al lavoratore in quanto ha ritenuto che al momento della conciliazione il lavoratore aveva certamente maturato il diritto a far valere l’illegittimità del primo contratto di lavoro a termine (già impugnato e oggetto del primo giudizio), ma non era invece ancora entrato a far parte del patrimonio giuridico del lavoratore il diritto di far valere l’illegittimità del secondo contratto di lavoro a termine per superamento del limite di trentasei mesi.
A parere della Corte, dunque, il lavoratore ha rinunciato a tale diritto, non dopo averlo già acquisito, ma nell’atto in cui lo acquisiva, o meglio, col proprio atto dispositivo ha impedito il sorgere di quel diritto. Difatti nel verbale di conciliazione il lavoratore ha rinunciato a muovere qualsiasi eccezione sulla base del rapporto costituito in quel momento e ad avanzare qualsiasi pretesa verso la società che avesse fondamento in quel nuovo contratto.
Per questa ragione, secondo la Corte di Cassazione, non si è trattato di una rinunzia, che presuppone un diritto già maturato in capo al lavoratore, ma di un atto con cui le parti hanno regolato il loro nuovo rapporto di lavoro in modo difforme dalla norma imperativa sui limiti temporali del contratto a termine, con conseguente nullità.
Ribadisce ancora la Corte di Cassazione che
- l’articolo 2.113 c.c. consente in sede protetta le rinunce ma non gli atti regolativi in contrasto con le norma imperative;
- in sede conciliativa si può infatti rinunciare a diritti già maturati ma non si possono concordare regolazioni dei rapporti contrarie a norma imperative;
- la sede protetta non può essere il luogo in cui si consumano le violazioni, cioè si concordano regolazioni contra legem con rinuncia a farle valere ma si può unicamente rinunciare ai diritti già maturati in conseguenza di violazioni già realizzate prima e fuori da quella sede.