Il lavoratore che si dimette a causa del trasferimento ha diritto alla NASpI

A chiarirlo è il Tribunale di Torino, con la sentenza n. 429/2023

 
pendolare ritardo

La decisione di dimettersi dopo aver subito un trasferimento a notevole distanza dalla sede abituale di lavoro o dalla propria residenza - a prescindere dalla legittimità o meno del provvedimento datoriale - è da ritenersi una scelta imputabile a terzi, non volontaria, a cui consegue il diritto di percepire l’indennità NASpI. A chiarirlo è il Tribunale di Torino, con la sentenza n. 429/2023.

I fatti di causa

Nel caso in esame una lavoratrice, a fronte del provvedimento datoriale di trasferimento dall’unità produttiva di Torino (sede abituale di lavoro) a quella Trieste, rassegnava le proprie dimissioni per giusta causa, indicando quale causale il “rifiuto di trasferimento in altra sede ad oltre 80 km dalla residenza”.

Successivamente, la lavoratrice e la società datrice di lavoro sottoscrivevano un verbale di conciliazione in sede sindacale in cui (i) la prima confermava le dimissioni, rinunciando ad ogni pretesa connessa o derivata dall’intercorso rapporto di lavoro e (ii) la seconda si obbligava a corrisponderle una somma a titolo transattivo ed un’altra a titolo di incentivo all’esodo.

La lavoratrice, in possesso dei requisiti di anzianità contributiva previsti per legge, presentava all’INPS domanda di NASpI (“Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego”) che si vedeva respingere con la seguente motivazione: “la cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni non dà diritto alla concessione del trattamento in oggetto”.

A seguito di istanza di riesame, l’INPS, richiamando il proprio messaggio del 26 gennaio 2018 n. 369, confermava il suo provvedimento con la precisazione che: “in caso di trasferimento a più di 50 km dalla residenza del lavoratore e/o raggiungibile in più di 80 minuti con i mezzi pubblici, la cessazione deve avvenire per risoluzione consensuale per poter accedere alla Naspi. In caso di dimissioni giusta causa è necessario che il lavoratore provi che il trasferimento non sia sorretto da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.

La lavoratrice decideva così di ricorrere in giudizio affinché venisse accertato il suo diritto a percepire la NASpI.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale di Torino adito, nell’esaminare la fattispecie di che trattasi, ha innanzitutto richiamato:

  • il summenzionato messaggio n. 369/2018 laddove dispone che l’accesso al trattamento di disoccupazione è consentito (per quanto qui ci interessa) nel caso di “cessazione del rapporto di lavoro in cui le parti addivengono alla risoluzione consensuale del rapporto (..) in esito al rifiuto del lavoratore al trasferimento ad altra sede della stessa azienda distante oltre 50 km dalla residenza del lavoratore o mediamente raggiungibile in oltre 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblico” e
  • le circolari n. 142/2012 e n. 142/2015 in cui sempre l’INPS ha sottolineato come in tale ipotesi “la volontà del lavoratore può essere stata indotta dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro conseguenti al trasferimento (…). Pertanto (…) si può riconoscere l'indennità di disoccupazione”.

In questo contesto, il Tribunale ha osservato come l’INPS abbia aggiunto che l’indennità di disoccupazione spetta anche laddove il lavoratore ed il datore di lavoro in sede di conciliazione abbiano pattuito la corresponsione al lavoratore di somme a vario titolo e di qualunque importo esse siano.

Proprio alla luce della posizione espressa dell’INPS, il Tribunale è giunto ad affermare che un trasferimento a notevole distanza dalla sede abituale di lavoro o dalla propria residenza impatta in misura notevole sulle condizioni di vita personali e familiari del lavoratore interessato. Pertanto, la decisione di dimettersi dopo aver subito un trasferimento, a prescindere dalla legittimità o meno della scelta organizzativa datoriale, è da ritenersi una scelta imputabile a terzi, non volontaria, a cui consegue il diritto di percepire l’indennità NASpI.

Del resto, ha osservato il Tribunale, “la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è sostanzialmente equiparabile alle dimissioni, non essendoci alcuna differenza concettuale, tra la dichiarazione di volontà con cui il lavoratore pone unilateralmente termine al rapporto di lavoro e la dichiarazione di volontà che confluisce, unitamente ad analoga dichiarazione del datore di lavoro, nell'accordo oggetto di risoluzione consensuale”. Secondo il Tribunale, sarebbe ingiustificato riservare un diverso trattamento ad ipotesi analoghe.

Il Tribunale ha, quindi, concluso che le dimissioni rassegnate dalla lavoratrice devono ritenersi involontarie, in quanto determinate da una condotta datoriale che ha reso obbligata la sua scelta. La domanda della lavoratrice è stata così accolta con condanna dell’INPS al pagamento dell’indennità in esame nella misura e con la decorrenza di legge, oltre accessori.

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