Licenziamenti per giustificato motivo oggettivo: non serve che l’insussistenza del fatto sia manifesta

Con la Sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 cambia, in parte, l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori

 
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Cancellata la "manifesta" insussistenza del fatto alla base del licenziamento oggettivo. La sentenza n. 125/2022 del 19 maggio 2022 stabilisce che il giudice non può sindacare nel merito una scelta dell'imprenditore, ma limitarsi a una verifica di legittimità.  Si tratta infatti di un criterio indeterminato che presta il fianco a trattamenti iniqui: esso non si fonda su una graduazione dei vizi per cui spetta al giudice e alle parti, verificare la più o meno marcata graduazione dell'eventuale insussistenza. 

Quindi ai fini della tutela dell'articolo 18 dell’articolo 18, settimo comma, secondo periodo, della Legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012 (Legge Fornero), il giudice non è tenuto ad accertare che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento economico sia "manifesta".

Pertanto subordinare la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato per motivo oggettivo al fatto che l’insussistenza del motivo di licenziamento sia manifesta integra la violazione degli articoli 3, 4 e 35 della Costituzione.

 

Il quadro normativo

Per comprendere la portata della sentenza della Consulta – che, unitamente alla sentenza n. 159 del 2021 della stessa Corte Costituzionale, ha comportato l’eliminazione delle novità introdotte dalla Riforma Fornero - è utile un breve inquadramento normativo in punto di sanzioni per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative per il quale lo Statuto dei Lavoratori appresta all’articolo 18 un diversificato apparato di tutele.

Quando sia manifesta l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, opera la tutela reintegratoria. All’ordine di reintegrazione si affianca la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria, parametrata all’ultima retribuzione globale di fatto e comunque non superiore all’importo di dodici mensilità, per il periodo che intercorre dal licenziamento alla effettiva reintegrazione. Da tale somma occorre detrarre quanto il lavoratore, nel periodo di estromissione, abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative (aliunde perceptum) e quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (aliunde percipiendum). Il datore di lavoro è poi obbligato a versare i contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione.

Nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, il giudice invece dichiara risolto il rapporto di lavoro sin dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Nella determinazione dell’indennità si tiene conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti e delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

In fatto

Con ordinanza del 6 maggio 2021 il Tribunale Ordinario di Ravenna, in funzione di Giudice del Lavoro, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’articolo 18, settimo comma, secondo periodo, della Legge n. 300 del 20 maggio 1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori) come modificato dall’articolo 1, comma 42, lettera b della Legge n. 92 del 28 giugno 1992 (c.d. Legge Fornero) per violazione degli articoli 1, 3, 4, 24 e 35 della Costituzione.

Le censure del Tribunale di Ravenna si incentravano sulla disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, più precisamente, sul secondo periodo del settimo comma dell'articolo 18, ritenuto viziato da incostituzionalità nella parte in cui richiede il carattere manifesto della insussistenza del fatto ai fini della reintegrazione del lavoratore.

Vi sarebbe, a parere del Giudice del Lavoro di Ravenna, anzitutto una ingiustificata, irrazionale ed illegittima differenziazione tra il licenziamento per giustificato motivo oggettivo da un lato e il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo dall’altro. Soltanto nella prima fattispecie sarebbe infatti richiesta, ai fini della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, una insussistenza manifesta del fatto e tale diversità di trattamento sarebbe sprovvista di qualsivoglia ragione.

La violazione del principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 comma 1 della Costituzione sarebbe ravvisabile altresì nel raffronto con la disciplina del licenziamento collettivo ove, in caso di violazione dei criteri di scelta, concede la reintegrazione, preclusa invece nel licenziamento individuale per ragioni economiche qualora non connotati dalla manifesta insussistenza della ragione.

Il carattere manifesto della insussistenza del fatto sarebbe inoltre criterio intrinsecamente illogico, dunque lesivo dell’articolo 3 primo comma della Costituzione in quanto incerto nella sua applicazione concreta e carente di un preciso e concreto metro di giudizio idoneo a definire il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto.

L’irragionevolezza della disposizione impugnata si rivelerebbe anche nell’inversione probatoria in essa sancita per effetto della quale incombe in capo al lavoratore l’onere di provare il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto, compromettendo di fatto il diritto del lavoratore ad agire in giudizio.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’ Avvocatura Generale di Stato, ha chiesto di dichiarare manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Ravenna sostenendo che la diversità di trattamento tra il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e ed i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa rispecchierebbe la diversità sostanziale delle situazioni, la prima legata a scelte organizzative del datore di lavoro, la seconda legata invece al comportamento del lavoratore.

Infine, a parere della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nemmeno le censure mosse avverso l’indeterminatezza del criterio della manifesta infondatezza sarebbero fondate in quanto, al contrario, giustificate dalla necessità di escludere la rilevanza di “interessi contrapposti da bilanciare con quello del lavoratore alla reintegrazione del posto di lavoro”.

Infine, il requisito della manifesta infondatezza presenterebbe un significato sostanziale in quanto denoterebbe la chiara pretestuosità del licenziamento, nozione quest’ultima autonoma e diversa rispetto quella del licenziamento discriminatorio o ritorsivo, con conseguente possibilità per il Giudice di valorizzare puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento nell’esercizio del potere di apprezzamento delle circostanze concrete del caso sottoposta al giudizio.

La decisione della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale ha dichiarato fondata la questione di legittimità costituzionale.

A parere della Corte, infatti, la previsione del carattere manifesto dell’insussistenza del fatto presenta profili di irragionevolezza intrinseca poichè il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, è anzitutto indeterminato richiedendo un apprezzamento imprevedibile, mutevole, svincolato da ogni criterio direttivo o indicazione utile a orientarne gli esiti.

La valutazione del carattere manifesto dell’insussistenza dovrebbe quindi avvenire in assenza di parametri valutativi uniformi con il rischio, pertanto, di giungere a valutazioni difformi in merito alla tutela applicabile in fattispecie analoghe.

Secondo i giudici costituzionali inoltre “la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto un’alternativa netta che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”

Sempre secondo la Corte Costituzionale l’irragionevolezza del criterio della manifesta insussistenza sarebbe resa evidente anche dal fatto di non “avere alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato che non è più grave solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio”.

Sul piano processuale ha invece rilevato la Corte Costituzionale come le controversie che attengono ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo sono spesso connotate da un quadro probatorio articolato, incompatibile con una verifica immediata dell’insussistenza del fatto, che la legge invece richiede ai fini della reintegrazione.

Il requisito della manifesta insussistenza complica dunque alcuni passaggi del processo, con un aggravio definito irragionevole e sproporzionato dello stesso in quanto esso impegna le parti ed il giudice, non solo all’accertamento, non di rado complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto, ma ad una ulteriore verifica, ovvero quella della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza, vanificando l’obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni e finisce per contraddire la finalità di una equa redistribuzione delle tutele dell’impiego (art. 1, comma 1, lettera c, della legge n. 92 del 2012), che ha in tali caratteristiche della tutela giurisdizionale il suo caposaldo.

Una valutazione vincolata a precisi punti di riferimento è invece necessaria per garantire fondamenti esigenze di certezza soprattutto in considerazione delle conseguenze che tale valutazione determina, ovvero due forme di tutela profondamente diverse.

Degno di nota è infine il fatto che, sempre lo stesso remittente, nel medesimo giudizio, aveva già sollevato questione di legittimità costituzionale della disciplina che contemplava la natura meramente facoltativa della reintegrazione nel licenziamento illegittimo intimato per giustificato motivo oggettivo.

Con sentenza n. 159 del 2021 la Corte Costituzionale aveva già dichiarato la illegittimità costituzionale dell’articolo 18, settimo comma, secondo periodo, dello Statuto dei Lavoratori, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo “può altresì applicare” invece che “applica altresì” la disciplina di cui all’articolo 18 comma quarto.

La conseguenza concreta della decisione della Corte Costituzionale

Nel caso di rapporti di lavoro in cui trova applicazione l’articolo 18 dello Statuto, ove il Giudice accerti l’insussistenza ( semplice e non più manifesta) dei motivi posti a fondamento del licenziamento, il Giudice dovrà sempre disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, oltre al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione, in misura comunque non eccedente le 12 mensilità, dedotto quanto il lavoratore ha percepito ( o avrebbe potuto percepire se avesse diligentemente cercato una nuova occupazione) nel periodo di estromissione, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione.

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